domenica 27 marzo 2011

I ROBOT E L'IMPERO - Isaac Asimov

[...]
"Sai Daneel, non tutti i ricordi hanno pari importanza."
"Non sono in grado di giudicare, signora."
"Altri, si. Sarebbe perfettamente possibile vuotare il tuo cervello, Daneel, e poi, sotto supervisione, rimepirlo solo col suo contenuto di ricordi importanti... diciamo, il dieci per cento del totale. Allora potresti continuare ad immagazzinare dati per secoli e secoli. Ripetendo un trattamento del genere, potresti andare avanti all'infinito. Sarebbe un'operazione costosa, certo, però io non baderei alla spesa. Ne varrebbe la pena, per te."
"Io verrei consultato in merito, signora? Sarebbe richiesto il mio consenso per un'operazione di questo tipo?"
"Sicuro. Trattandosi di una questione così delicata, da me non partirebbe alcun ordine. Equivarrebbe a tradire la fiducia del dottor Fastolfe."
"Grazie, signora. In tal caso, devo dirvi che non mi sottoporrei mai volontariamente a questo trattamento... a meno di non accorgermi di aver perso effettivamente le mie capacità mnemoniche."
Avevano raggiunto la porta, e Gladia si fermò. Disse, sinceramente sorpresa: "Come mai, Daneel?"
Daneel rispose a bassa voce: "Ci sono ricordi che non posso rischiare di perdere, signora... né per inavvertenza né per una valutazione errata da parte delle persone addette al trattamento."
"Ricordi tipo il sorgere e il calare delle stelle? Oh, perdonami, Daneel. Non intendevo scherzare. A quali ricordi ti riferisci?"
Daneel disse, abbassando ancor più la voce: "Lady Gladia, mi riferisco ai ricordi legati al mio antico compagno, il Terrestre Elijah Baley."
Gladia rimase come pietrificata, e fu Daneel che alla fine dovette prendere l'iniziativa e segnalare perché la porta si aprisse.
[...]
"Daneel!" lo chiamò.
Daneel non distolse l'attenzione dai comandi. "Si, Lady Gladia?"
"Sei contento di rivedere Elijah Baley?"
"Non saprei come descrivere con precisione il mio stato interiore, signora. Forse è analogo a quello che gli esseri umani definiscono contentezza."
"Però, proverai pure qualcosa, no?"
"Ho la sensazione di riuscire a prendere le decisioni più rapidamente del solito; sembra che le mie reazioni giungano con maggior facilità, che i miei movimenti richiedano meno energia. Potrei interpretarla complessivamente come una sensazione di benessere. Almeno, ho sentito usare questa parola dagli esseri umani e credo indichi qualcosa di simile a quanto sto provando."[...]

Da "I robot e l'impero", di Isaac Asimov, Ed. Oscar Mondadori, 2001, pp. 12; 34.

martedì 22 marzo 2011

RABBIA - Chuck Palahniuk

[...]
Al successivo Ringraziamento, in fila per un posto al tavolo degli adulti c'è Nonna Bel. Poi zio Clem. Poi zio Walt e zia Patty. A sentire Rant, sua mamma era lì che contava sulla punta delle dita: prima che lei potesse mangiare come un'adulta dovevano morire ancora quattro, cinque, sei parenti. Verso la fine del pranzo, nonna Bel comincia a sudare. Ha la febbre a quaranta, eppure dice che sente freddo. Tra gli altri sintomi ci sono capogiri, spossatezza e dolori muscolari.
A sentire Rant, nonna Bel non riesce a respirare perché, come si scopre in seguito, i suoi polmoni si stanno riempiendo di liquido. I reni sono bloccati. A metà strada tra casa Casey e l'ospedale, nonna Bel smette di respirare.

Echo Lawrence: Salta fuori che quella fortunella di nonna Bel si è beccata un virus mortale. Si chiama "hantavirus" e si prende da un animale che Rant chiama "topo dalle zampe bianche". Il topo caga, e la merda secca si sbriciola in polvere. Tu respiri questa merda in polvere, e nel giro di sei settimane il virus ti uccide.
Bel è una vecchia signora col rossetto rosso, il naso incipriato.
Rant ci ha raccontato che il medico legale della contea ha fatto analizzare la polvere nel portacipria di Bel, e ovviamente per metà era merda di topo. Stronzi di topo secchi e macinati. Il piumino da cipria era pieno di merda in polvere. Mistero risolto. Più o meno.

Shot Dunyun: Non sto dicendo che Rant Casey fosse una specie di serial killer naturopata - ragni, pulci, topi e api - ma non mi stupirei se qualcuno lo pensasse. [...]

Da "Rabbia", di Chuck Palahniuk, Ed. Mondadori "Strade blu", 2007, pp. 72-73.

martedì 15 marzo 2011

LO HOBBIT - J.R.R. Tolkien

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"Che cosa sssarà, tesssoro mio?" sussurrò Gollum (che si rivolgeva sempre a se stesso, non avendo mai nessun altro con cui parlare). Proprio per scoprire questo era venuto, poiché al momento, in verità, non aveva molta fame, solo curiosità; altrimenti avrebbe prima ghermito e poi sussurrato.
"Sono il signor Bilbo Baggins. Ho perso i nani, ho perso lo stregone e non so dove sono; né m'importa di saperlo, se solo riesco ad uscire di qui".
"Che cosss'ha in mano?" disse Gollum, guardando la spada, che non gli piaceva affatto.
"Una spada, una lama che fu forgiata a Gondolin!".
"Ssss!" disse Gollum, e si fece educatissimo. "Forse dovremmo sederci qui e chiacchierare un pochettino, tesssoro mio. Gli indovinelli gli piacciono, forse gli piacciono, non è vero?". Era ansioso di mostrarsi amichevole, almeno per il momento e fin tanto che non ne sapesse di più sulla spada e sullo hobbit: se fosse veramente tutto solo, se fosse buono da mangiare, e se lui, Gollum, avesse veramente fame. Gli indovinelli erano la sola cosa che gli fosse venuta in mente. Porli, e talvolta risolverli, era stato l'unico gioco cui avesse mai giocato con altre buffe creature che sedevano nelle loro caverne in un passato lontano lontano, prima di perdere tutti i suoi amici e di essere scacciato via, solo, e di scendere furtivamente nelle tenebre, sotto le montagne.
"Benissimo" disse Bilbo, che era ansioso di mostrarsi d'accordo, fin tanto che non ne sapesse di più su quella creatura: se fosse tutto solo, se fosse aggressivo o affamato, e se fosse un amico degli orchi.
"Comincia tu" disse, perché non aveva avuto il tempo di pensare un indovinello. [...]

Da "Lo hobbit", di J.R.R. Tolkien, Ed. Gli Adelphi, 1994, pp. 92-93.

domenica 6 marzo 2011

L'ULTIMO DISCO DEI MOHICANI - Maurizio Blatto

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Certe volte mi sembra di vivere nel giorno della marmotta, come in quel film con Bill Murray dove tutto si ripete in eterno. Guardo l'orologio e poi chiudo gli occhi. Tra cinque minuti esatti entra quello che compra solo il blues, mezzora e chiama quello da Genova per gli usati italiani.
Non sbaglio mai. Ogni tanto, chiaramente, si pesca un jolly e qualcosa cambia, soprattutto all'apertura.
Una volta ho tirato su la serranda di fronte ad una piazza completamente deserta, una cosa da far resuscitare De Chirico. Nessuno.
Mi sono messo dietro al bancone per scegliere un cd e lui si è materializzato.
E' entrato in silenzio e mi ha sorriso. Ho ricambiato.
Quindi con naturalezza si è sdraiato per terra, la testa sotto la sezione reggae e i piedi diritti. La mani sui fianchi, non una parola.
L'ho guardato da dietro le scatole dei 45 giri e ho pensato ci siamo, questo è il punto di non ritorno.
Chiudo con lui dentro e vado a cercarmi un lavoro da magazziniere. Poi ho lasciato passare un paio di minuti , un'eternità per una situazione simile e gli ho chiesto: "Tutto bene?".
Lui ha aperto le mani come tergicristalli e ha fatto una smorfia di assenso. Tutto perfetto, quindi.
Scartando l'ipotesi di una candid camera per eccesso di banalità, ho immaginato che si trattasse di una pièce teatrale improvvisata, forse Jonesco. Il teatro dell'assurdo.
Comunque qualcosa andava fatto. "Senti un po', non è che ti posso lasciare buttato là sotto. Qualunque sia il tuo problema, per favore alzati". Si è voltato di pochissimo verso di me. "Amico, ti capisco, ma io voglio morire e soltanto da qui sento la musica del mio Paese, cerca di capirmi". Aveva un accento slavo e, in un momento di spontaneismo immaginativo, l'ho mentalmente battezzato Dimitri. "A parte che siamo in silenzio assoluto, ma qualsiasi cosa tu senta lì, non puoi nè morire tanto meno rimanere sdraiato. Se entra qualcuno e ti vede, cosa gli racconto?". Stavolta non si è mosso: "Io sento". Poi, come si fa con i bambini, gli ho piazzato un: "Devo venire lì?". Dimitri, immobile, con lo sguardo dritto sui neon barcollanti dal soffitto mi ha spiegato: "Vivere lontano dal Paese è come fermare il vento con le mani. Non so di più. E' ora che io muoia. Qui". "Molto poetico, ma alzati comunque. Non è che puoi andara a morire in Piazza?". L'ha presa come un'offesa e ha battuto i due palmi delle mani sugli scacchi (quasi) bianchi e neri del pavimento. "Tu non capisci. Io sento qui, qui sotto". Allora sono uscito fuori dal bancone e ho deciso di guardarlo, da uomo in piedi a uomo sdraiato. "Sentimi bene, qua sotto non c'è un bel cazzo di niente, a parte le bottiglie di Amaro Cora e di Petrus della signora che una volta aveva la piola all'angolo. Nient'altro. Quindi adesso mi fai il santo piacere di tirarti su e andare a morire in Piazza, che magari si sente qualcosa anche lì. Dai". Deludere un uomo non è bello, lo so, ma non potevo tenermi Dimitri come tappetino da preghiera o aspettare che tirasse davvero le cuoia sotto i vinili dei Congos. Cosa gli raccontavo alla Polizia, che mi era morto felice con il suono del Paese nelle orecchie? Più che una scusa mi sembrava un verso di Al Bano, così ho aperto la porta e gli ho fatto segno di andarsene. "Dai". Dimitri ha realizzato che non era più aria e lentamente ha imboccato la porta con un'espressione tipo da te non me lo sarei mai aspettato. Un minuto dopo era sdraiato sul muretto della Piazza, nell'indifferenza più totale. Gli hanno parcheggiato una Uno verde infezione con un adesivo di Bart Simpson che mostra il culo a un metro. Ma dalla vetrina lo vedevo ancora. Lui rimaneva immobile, un sarcofago incurante delle pallonate. Un paio di volte sono uscito e gli ho fatto un gesto con il mento, come a dire "e allora?". Dimitri mi ha fatto capire con la mimica che, niente, il suono del Paese lì davvero non lo sentiva. Lo credo, quello della Uno aveva il portellone aperto e Vasco a volume 11, secondo copione. Sono persino stato tentato di farlo rientrare e tenerlo lì, come una pelle di leone, magari faceva anche arredamento. Poi ho cercato qualcosa nel retro e quando mi sono ricordato di Dimitri lui non c'era più. Sparito. Il tempo di guardare che non l'avessero messo come guardialinee per la partitella della Piazza ed è entrato quello del blues. Mezzora dopo hanno chiamato da Genova: "Usati italiani?".

Da "L'ultimo disco dei Mohicani", di Maurizio Blatto, Ed. Castelvecchi, 2010, pp. 126-128.