martedì 26 luglio 2011

CIPI' - Mario Lodi

[...]
- Tre! - diceva.
- Tre! Sono tre!
Non gli uscivano altre parole, ma gli uccelli capivano cos'era accaduto.
Fatto il giro del paese, si ricordò di Margherì che gli aveva raccomandato di andare a raccontarle le belle notizie della sua vita, allora puntò verso il nastro d'argento e calò sul prato. Ma la margheritina non c'era più perché l'uomo era appena passato col ferro tagliente e aveva reciso tutti gli steli, che allineati sul prato morivano a poco a poco.
- Margherì! - chiamò cercandola in lungo e in largo.
Una vocina soffocata sospirò: - Cipì!...
- Questa è la sua voce! - disse, cominciando a buttare all'aria con furiosi colpi di becco l'erba ammucchiata dalla falce.
- Dove sei, Margherì? Dove sei? - ripeteva.
- Son qui... - sospirò il fiore.
Cipì frugò ancora fra gli steli, finchè la trovò, ormai morente, con la bella testolina schiacciata contro la terra.
- Oh, Cipì... hai fatto bene a venire... - disse appena fu liberata, rivolgendo al sole, con un estremo sforzo, i delicati petali bianchi.
Cipì l'afferrò col becco e la trasse fuori: - Io ti porto via, a vedere i miei piccini... sono tre, meravigliosi!
- Lasciami, ti prego, mio caro Cipì... ormai è finita... - sospirò, - lasciami morire qui, fra gli steli che furono i fedeli compagni della mia vita...
Allora Cipì la depose delicatamente sull'erba falciata, con la corolla al sole.
Con un filo di voce, la margheritina continuò:
- Sono felice che tu sia papà... bravo Cipì... insegna loro ad amare le cose care e belle... salutami il sole e il vento... ah, come è breve la vita... - Riprese fiato un poco e poi sussurrò:
- Ricordati sempre di Margherì... - e reclinata la testolina, spirò.
In quell'istante una bianca nuvoletta amica della margherita corse davanti al sole a dirgli, lagrimando, che il fiorellino che tanto l'amava era spirato e per un momento il prato restò in ombra, come parato a lutto.
E fu così che anche il vento lo venne a sapere: allora fermò la carezza che tanto piaceva a Margherì, e l'acqua del nastro d'argento che aveva raccontato al simpatico fiorellino tante storie di paesi lontani, passò in punta di piedi, facendo cenno alle ranocchie di tacere.
Cipì s'alzò verso uno stormo di rondini che arrivavano e le avvertì: - E' morta Margherì, il fiorellino poeta...!
Gli uccelli fecero larghi giri silenziosi sul prato fin che Palla di fuoco a poco a poco, con la faccia rossa di pianto, si coricò nel suo letto nebbioso.
Tornato accanto ai suoi piccoli che già lo chiamavano papà, Cipì non sapeva se ridere o piangere, perché era tanto contento, ma anche tanto triste.
- Povera Margherì, - sussurrò alla passeretta, - è morta proprio oggi che sono diventato papà...
[...]

da "Cipì", di Mario Lodi, Ed. Gli struzzi Einaudi, 1991, pp. 35-37.

DIECI PICCOLI INDIANI - Agatha Christie

[...]
Vera la lesse. Era una di quelle vecchie filastrocche per bambini che ricordava fin dall'infanzia.

Dieci poveri negretti
se ne andarono a mangiar:
uno fece indigestione,
solo nove ne restar.
Nove poveri negretti
fino a notte alta vegliar:
uno cadde addormentato,
otto soli ne restar.

Otto poveri negretti
se ne vanno a passeggiar:
uno, ahimè, è rimasto indietro,
solo sette ne restar.
Sette poveri negretti
legna andarono a spaccar:
un di lor s'infranse in mezzo,
e sei soli ne restar.

I sei poveri negretti
giocan con un alvear:
da una vespa uno fu punto,
solo cinque ne restar.
Cinque poveri negretti
un giudizio han da sbrigar:
un lo ferma il tribunale,
quattro soli ne restar.
Quattro poveri negretti
salpan verso l'alto mar:

uno un granchio se lo prende,
e tre soli ne restar.
I tre poveri negretti
allo zoo voller andar:
uno l'orso ne abbrancò,
e due soli ne restar.
I due poveri negretti
stanno al sole per un po':

un si fuse come cera
e uno solo ne restò.
Solo, il povero negretto
in un bosco se ne andò:
ad un pino s'impiccò,
e nessuno ne restò.

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da "Dieci piccoli indiani", di Agatha Christie, Ed. I Grandi Bestsellers Mondadori - De Agostini, 1985, pp. 30-31.

lunedì 25 luglio 2011

LA DONNA DI PICCHE - Aleksander Puškin

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Si svegliò che era già notte: la luna rischiarava la sua stanza. Guardò l'orologio: erano le tre meno un quarto. Il sonno gli era passato; sedette sul letto e pensò ai funerali della vecchia contessa.
In quel momento qualcuno dalla via gli gettò un'occhiata attraverso la finestra e subito si scostò. Hermann non vi fece alcun caso. Un minuto dopo sentì aprire la porta nell'anticamera. Hermann pensò che il suo attendente, ubriaco come al solito, stesse tornando da una passeggiatina notturna.
Ma sentì un passo sconosciuto: qualcuno camminava, strascicando leggermente le scarpe. La porta si aprì, entrò una donna vestita di bianco. Hermann la prese per la sua vecchia balia, e si stupì, domandandosi che cosa potesse averla condotta lì a quell'ora. Ma la donna bianca con un guizzo si ritrovò d'un tratto davanti a lui - ed Hermann riconobbe la contessa!
- Sono venuta da te contro la mia volontà, - disse questa con voce ferma, - ma mi è stato ordinato di esaudire la tua preghiera. Il tre, il sette e l'asso ti faranno vincere di seguito, ma a patto che tu non punti più di una carta al giorno e che poi non giochi più per tutta la vita. Ti perdono la mia morte, a patto che tu sposi la mia pupilla Lizaveta Ivanovna...
Detto questo, si voltò piano, andò verso la porta e scomparve, strascicando le scarpe. Hermann sentì sbattere la porta dell'ingresso, e vide che qualcuno guardava di nuovo nella stanza.
Hermann per un pezzo non poté riaversi. Andò nell'altra stanza. Il suo attendente dormiva per terra; Hermann faticò molto a svegliarlo. L'attendente come al solito era ubriaco: fu impossibile cavargli qualcosa di sensato. La porta d'ingresso era chiusa. Hermann ritornò nella sua stanza, accesa la candela e annotò la sua visione. [...]

Da "La donna di picche", di Aleksander Puškin, Ed. Marsilio Editori, 1998, pp. 97-99.

DIARIO DI UN KILLER SENTIMENTALE - Luis Sepulveda

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All'aereoporto, prima di fare il check-in, andai in bagno a cambiarmi la camicia. Nello specchio, un tipo molto simile a me si asciugava il volto con i fazzolettini di carta che gli porgeva un inserviente magro e silenzioso uguale a quello che avevo al mio fianco.
"Stai esagerando," disse il tipo nello specchio.
"Non so di cosa parli," replicai.
"Scusi?" mormorò l'uomo magro dei fazzolettini,
"Non sono affari tuoi," sbuffai allontanandolo con uno spintone.
"Hai visto? Calmati. Ci sono mucchi di donne come lei. Senti, hai ancora molto tempo. Spedisci la valigia e poi beviti un paio di gin," mi consigliò il tipo nello specchio.
Gli detti retta.
In genere seguo i suoi consigli, soprattutto quelli professionali. Ricordo un incarico che dovetti portare a termine alla metà degli anni ottanta, Bisognava eliminare un industriale ad Austin, in Texas. Era un tizio molto abile e aveva trovato un ottimo modo per proteggersi durante il tragitto di andata e ritorno dal suo ufficio: viaggiava su un pullman scolastico pieno di bambini, seduto in mezzo a loro. La stampa texana parlava con ammirazione di quel benefattore che rinunciava alla sua limousine e finanziava invece il trasporto scolastico. Ciò che non dicevano era che quel figlio di cagna usava i bambini come scudo umano.
"Non voglio uccidere dei ragazzi, ma non ho altra scelta perché l'ufficio è inespugnabile," dissi al tipo allo specchio.
"Usa la zucca, amico. L'incarico è uno yankee, il che è sinonimo di patriota. Hai afferrato l'idea?".
"Neanche un po'. Non mi piaci quando parli come un oracolo."
"Si avvicina il 4 luglio e l'incarico non si lascerà sfuggire l'occasione di tirare fuori un po' di adrenalina patriottica. E' a quello che bisogna mirare."
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Da "Diario di un killer sentimentale", di Luis Sepulveda, Ed. La biblioteca di Repubblica, 2002, pp. 25-26.

sabato 23 luglio 2011

I VERSI D'ORO DI PITAGORA - Fabre D'Olivet

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Io non concepisco come Kant, dando alla parola Vernunft il senso della parola latina ratio, ha potuto dire che è il più alto grado dell'attività di uno spirito che ha la potenza di tutta la sua libertà e la coscienza di tutte le sue forze: niente di più falso.
La ragione non esiste affatto nella libertà, ma al contrario nella necessità. Il suo movimento che è geometrico, è sempre costretto: è una conseguenza necessaria del punto di partenza e niente di più. Facciamo un profondo esame di tutto questo. La parola latina ratio, della quale Kant ha evidentemente seguito il senso, non ha mai tradotto esattamente la parola greca logos nel significato di verbo; e se i filosofi greci sostituivano talvolta la parola logos alla parola nous, ovvero il verbo alla intelligenza, prendendo l'effetto per la causa, a torto i romani tentarono di imitarli adoperando la parola ratio invece di mens e intelligentia. Provarono con questo la loro ignoranza e misero a nudo le funeste rovine che lo scetticismo aveva già prodotto fra loro.
La parola ratio si fonda sulla radice ra o rat che in tutte le lingue dove essa è comparsa vi ha portato l'idea di linea, di raggio, cioè di una linea retta tirata da un punto ad un altro. Così la ragione invece di essere libera, come ha preteso Kant, è tutto ciò che vi può essere di più ristretto, di più contenuto nella natura: è una linea geometrica, sempre soggetta al punto da cui emana e forzata a portarsi a colpire il punto verso quale è diretta, a meno di cessare di esser tale, cioè una linea retta. Ora, la ragione non essendo libera nel suo cammino, in sè stessa non è nè buona nè cattiva ma sempre analoga al principio del quale è la conseguenza. La sua natura di procedere è diritta: la sua perfezione non è altra cosa. Si va diritti in tutti i modi, in tutte le direzioni, in alto, in basso, a destra, a sinistra: si ragione giustamente tanto nella verità come nell'errore, nel vizio come nella virtù: tutto dipende dal principio da cui si parte e dal punto di vista da cui si guarda. La ragione non offre questo principio: essa non è padrona del segno che va a colpire, più della linea retta tirata sul terreno che non è padrona del punto che va a raggiungere. Questo punto, questo segno sono determinati a priori dalla posizione del ragionatore o del geometra. [...]

Da "I versi d'oro di Pitagora", di Fabre D'Olivet, Ed. Gius. Laterza & Figli, 1931, pp. 77-78. (copia anastatica)