domenica 27 febbraio 2011

LA CASA DEGLI SPIRITI - Isabel Allende

[...]
Barrabàs arrivò in famiglia per via mare, annotò la piccola Clara con la sua delicata calligrafia. Già allora aveva l'abitudine di scrivere le cose importanti e più tardi, quando rimase muta, scriveva anche le banalità, senza sospettare che, cinquant'anni dopo, i suoi quaderni mi sarebbero serviti per riscattare la memoria del passato, e per sopravvivere al mio stesso terrore. Il giorno in cui arrivò Barrabàs era Giovedì Santo. Stava in una gabbia lercia, coperto dei suoi stessi escrementi e della sue stessa orina, con uno sguardo smarrito di prigioniero miserabile e indifeso, ma già si intuiva - dal portamento regale della sua testa e dalla dimensione del suo scheletro - il gigante leggendario che sarebbe diventato. Era quello un giorno noioso e autunnale, che in nulla faceva presagire gli eventi che la bimba scrisse perché fossero ricordati e che accaddero durante la messa delle dodici, nella parrocchia di San Sebastiàn, alla quale assistette con tutta la famiglia.
In segno di lutto, i santi erano coperti di drappi viola, che le beghine toglievano ogni anno dalla polvere dell'armadio della sacrestia, e, sotto i lenzuoli funebri, la corte celeste sembrava un cumulo di mobili in attesa del trasloco, senza che le candele, l'incenso o i gemiti dell'organo potessero opporsi a questo pietoso effetto. Minacciose masse scure si ergevano al posto dei santi a grandezza naturale, con le loro facce tutte identiche dall'espressione raffreddata, le loro elaborate parrucche di capelli di morto, i loro rubini, le loro perle, i loro smeraldi di vetro colorato e i loro abiti da nobili fiorentini. L'unico favorito dal lutto era il patrono della chiesa, San Sebastiano, perché nella settimana santa veniva risparmiato ai fedeli lo spettacolo del suo corpo contorto in una posizione indecente, trafitto da mezza dozzina di frecce, grondante sangue e lacrime, come un omosessuale sofferente, le cui piaghe, miracolosamente fresche grazie al pennello di padre Restrepo, facevano tremare di ribrezzo Clara.
Era quella una lunga settimana di penitenza e digiuno [...].

E in quel momento, come avrebbe ricordato anni dopo Nivea, in mezzo alla trepidazione e al silenzio, si udì ben nitida la voce della piccola Clara.
- Pst! Padre Restrepo! Se il racconto dell'inferno fosse tutta una bugia, saremmo proprio fregati...
Il dito indice del gesuita, che era rimasto a mezz'aria per indicare nuovi supplizi, rimase sospeso come un parafulmine sopra la sua testa. La gente smise di respirare e quelli che stavano con la testa a ciondoloni si ripresero. I coniugi della Valle furono i primi a reagire sentendo che li invadeva il panico e vedendo che i loro figli cominciavano ad agitarsi nervosi. Severo comprese che doveva far qualcosa prima che esplodesse la risata collettiva o si scatenasse qualche cataclisma celeste. Prese sua moglie per un braccio e Clara per il collo e uscì trascinandole a grandi falcate, seguito dagli altri figli che si precipitarono in gruppo verso la porta. Riuscirono a uscire prima che il sacerdote avesse potuto invocare un fulmine che li trasformasse in statue di sale, ma dalla soglia udirono la sua terribile voce di arcangelo offeso.
- Indemoniata! Superba indemoniata!
[...]

Da "La casa degli spiriti", di Isabel Allende, Ed. Universale Economica Feltrinelli, 1997, pp.11-12; 16.

FRANKENSTEIN - Mary Shelley

[...]
"Il cuore mi batteva forte: era giunta l'ora della prova, che avrebbe confermato le mie speranze o dato corpo alle mie paure. I servitori erano andati a una fiera vicina. Tutto era silenzio, dentro e intorno alla casa; era un'occasione eccellente; tuttavia, mentre stavo per eseguire il mio piano, le gambe mi vennero meno e caddi a terra. Mi alzai di nuovo, e, raccogliendo tutta la forza di volontà di cui ero capace, rimossi le assi che avevo sistemato sul davanti del capanno per nascondere il mio rifugio. L'aria fresca mi rianimò, e con rinnovata determinazione mi avvicinai alla porta del casolare.
"Bussai. "Chi è?" chiese il vecchio. "Entrate."
"Entrai. "Scusate l'intrusione" dissi; "sono un viandante che ha bisogno di un po' di riposo; mi fareste una grande cortesia se mi permetteste di restare per qualche minuto davanti al fuoco."
""Entrate" disse De Lacey, "e cercherò di soddifare i vostri bisogni; sfortunatamente, i miei figli non sono in casa, e io sono cieco, per cui temo che mi sarà difficile procurarvi del cibo."
""Non preoccupatevi, mio buon ospite. Ho del cibo; è di calore e di riposo che ho bisogno."
"Sedetti, e seguì un breve silenzio. Sapevo che ogni minuto era prezioso; tuttavia, ero incerto su come cominciare la conversazione, quando il vecchio mi si rivolse.
""Da come parlate, straniero, suppongo che siate un mio connazionale: siete francese?"
""No, ma sono stato educato da una famiglia francese, e parlo solo questa lingua. Sto andando a chiedere la protezione di alcuni amici che amo sinceramente e sul cui favore nutro qualche speranza."
""Sono tedeschi?"
""No, sono francesi. Ma cambiamo argomento. Io sono un essere solo e sfortunato: mi guardo attorno, e non ho al mondo né un parente né un amico. Queste persone benevole da cui sto andando non mi hanno mai visto e sanno poco di me. Sono pieno di timori, perché se fallisco con loro, sarò per sempre un reietto nel mondo."
""Non disperate. Essere senza amici è veramente una sfortuna, ma il cuore degli uomini, quando non sia preso da ovvi interessi personali, è pieno di carità e di amore fraterno.
Fidatevi dunque delle vostre speranze; e se questi amici sono buoni e gentili, non disperate."
""Sono gentili - sono le creature migliori di questo mondo; ma sfortunatamente hanno dei pregiudizi contro di me. Io sono di carattere buono; la mia vita sin qui è stata senza colpe e, in certo modo, benefica; ma un pregiudizio fatale vela i loro occhi, e laddove dovrebbero vedere un amico sincero e gentile, vedono solo un detestabile mostro."
""Questo è davvero un peccato; ma se voi siete veramente senza colpa, non potete aprir loro gli occhi?"
""Sto per farlo; ed è per questo che mi sento così pieno di paura. Amo teneramente questi amici; per molti mesi, ogni giorno, senza rivelarmi, ho fatto loro delle gentilezze; ma credono che io voglia far loro del male, ed è questo pregiudizio che io desidero dissipare."
""Dove abitano questi amici?"
""Qui vicino."
"Il vecchio fece una pausa, poi continuò: "Se volete confidarmi senza riserve i particolari della vostra storia, forse potrò esservi utile nell'illuminarli. Io sono cieco e non posso giudicarvi dal vostro aspetto, ma c'è qualcosa nelle vostre parole che mi fa credere che siate sincero. Sono povero e in esilio, ma mi darà vero piacere essere in qualche modo d'aiuto a una creatura umana".
""Uomo eccellente! Vi ringrazio e accetto la vostra generosa offerta. Voi mi sollevate dalla polvera con la vostra bontà; è confido che col vostro aiuto non sarò scacciato dalla compagnia e dall'affetto dei vostri simili."
""Che il cielo non voglia! anche se foste davvero un criminale; perché questo potrebbe solo portarvi alla disperazione, e non spingervi alla virtù. Sono anch'io sfortunato: io e la mia famiglia siamo stati condannati benché innocenti; giudicate quindi se non provo compassione per le vostre disgrazie."
""Come posso ringraziarvi, mio eccellente e unico benefattore? E' dalle vostre labbra che sento per la prima volta parole di bontà nei miei confronti; ve ne sarò grato per sempre; e questo vostro senso di umanità mi rassicura della buona riuscita con quegli amici che sto per incontrare."
""Posso sapere il nome di questi amici e dove abitano?"
"Feci una pausa. Questo, pensai, era il momento decisivo, che doveva darmi o privarmi per sempre della felicità. Invano lottai per mantenere la calma e rispondergli con voce ferma; ma lo sforzo mi privò di tutte le energie che mi restavano; mi abbandonai su una sedia, e scoppiai in singhiozzi. In quel momento sentii i passi dei miei giovani protettori. Non avevo un momento da perdere; afferrai la mano del vecchio, e gridai: "Questo è il momento! Salvatemi e proteggetemi! Voi e la vostra famiglia siete gli amici che cerco. Non abbandonatemi nel momento della prova!"
""Gran Dio!" esclamò il vecchio "chi siete?"
"In quell'attimo la porta del casolare si aprì, e Felix, Safie e Agatha entrarono. Chi può descrivere il loro orrore e il loro sgomento quando mi videro? Agatha svenne, e Safie, incapace di soccorrere l'amica, fuggì fuori. Felix si slanciò in avanti e con forza sovrumana mi strappò dalle ginocchia di suo padre che tenevo abbracciate, e in un eccesso di furore mi gettò al suolo e mi colpì violentemente con un bastone. Avrei potuto farlo a pezzi, come il leone sbrana l'antilope. Ma il cuore mi mancò come per un violento malore, e mi trattenni. Vidi che era sul punto di colpirmi di nuovo, quando, sopraffatto dalla pena e dal dolore, abbandonai il casolare e, senza che nessuno se ne accorgesse, nella confusione generale, mi rifugiai nel mio capanno."[...]

Da "Frankenstein", di Mary Shelley, Ed. Oscar Mondadori, 1982, pp. 147-149.

giovedì 24 febbraio 2011

FURORE - John Steinbeck

[...]
Il babbo si voltò verso il fratello. "Fa' sentire la tua opinione. Hai qualcosa in contrario?"
"No," disse zio John, "ma è come far le cose di nascosto. Il nonno non sarebbe contento."
"Non possiamo interpellarlo al riguardo," disse il babbo. "Dobbiamo arrivare in California prima che ci finiscano i soldi."
Tom interloquì: "Pare che il governo s'interessa più ai morti che ai vivi. Capace di dissotterrare un cadavere, se trova una tomba fuori dal cimitero, e fa l'inchiesta per sapere come è morto. Io propongo di lasciare una nota scritta, in una bottiglia, vicino al nonno, che spieghi chi è, come è morto, e perché l'abbiamo sepolto li."
Il babbo fece segno d'approvare la proposta. "Buona idea. Scrivila con bella calligrafia. C'è anche il vantaggio che si sentirà meno solo, sapendo che c'è il suo nome lì con lui, e non è uno sconosciuto qualsiasi abbandonato sotto terra. C'è nessun altro che ha da dire qualcosa?"
Nessuno aprì bocca. Il babbo guardò la mamma. "Lo prepari te il nonno?"
"Si, certo," replicò la mamma, "ma chi pensa alla cena?"
"Penso io," propose Sairy Wilson, "non vi preoccupate, ci penso con l'aiuto della vostra ragazzona."
"Grazie, grazie di cuore," disse la mamma. "Noè, porta i barilotti e tira fuori un po' di carne. Non sarà completamente salata ancora, ma sempre buona da mangiare."
"E noi abbiamo ancora un mezzo sacco di patate," disse Sairy.
La mamma disse al babbo: "Dammi due mezzi dollari." Il babbo si frugò in tasca e le diede le due monete d'argento. Ella andò all'autocarro, trovò la bacinella, la riempì d'acqua ed entrò sotto la tenda. Era quasi buio là dentro. Sairy la raggiunse, accese una candela, l'appiccicò ritta sulla cassetta-tavolino e uscì di nuovo. La mamma ristette un momento a guardare il viso del morto. Poi, presa da compassione, lacerò una striscia dall'orlo del suo grembiale e se ne servì per tener chiusa la mandibola del cadavere. Gli distese le gambe e gli piegò le braccia in croce sul petto. Gli chiuse le palpebre e su ciascuna posò una delle monete d'argento. Gli abbottonò la camica e gli lavò la faccia.
Sairy rientrando domandò se non le occorreva niente. La mamma la guardò e disse: "Venite dentro, mi fa piacere parlare con voi."
Sairy disse: "Gran brava donnina, la vostra Ruth. Sbuccia le patate che è un piacere vederla. Avete bisogno d'aiuto?"
"Volevo lavarlo tutto, ma non ha roba pulita di ricambio. Mi spiace per la vostra coperta. Impossibile levar via da una coperta l'odor della morte. Ricordo un cane che avevamo che, perfino due anni dopo la morte di mia madre, non voleva saperne di fare la cuccia sul materasso dov'era morta. Dovreste lasciarmi questa coperta per avvolgervi il nonno, ve ne do un'altra. Ce n'ho una da darvi."
"Non parlate così. Siamo contenti d'aver potuto esservi d'aiuto. E' da tanto che non mi sentivo così bene, s'ha sempre bisogno d'aiutarsi l'un l'altro."
"E' vero," convenne la mamma. Guardava il morto, con la mandibola fasciata e le palpebre d'argento che luccicavano alla luce della candela. "Non sembra naturale," disse, "è per questo che voglio avvolgerlo nella coperta."
"La nonna l'ha presa abbastanza bene."
"Si, è tanto vecchia, che forse non si rende pienamente conto. Ma è anche per fierezza che s'è mostrata coraggiosa. Il babbo diceva sempre: chiunque è buono d'accasciarsi, solo i forti stanno in piedi sotto il colpo."
Stava avvolgendo la coperta attorno alle gambe e alle spalle del nonno e ne ripiegò il lembo d'un angolo sulla faccia a mo' di cappuccio. Sairy le porse una dozzina di spille di spilli di sicurezza per assicurare accuratamente i lembi della coperta. Alla fine si alzò e disse: "Sarà un discreto funerale, date le circostanze. Abbiamo un predicatore, e tutta la famiglia riunita." Barcollò improvvisamente e dovette appoggiarsi sulla spalla di Sairy. "Non è debolezza," disse, quasi che sentisse vergogna di sé, "è sonno. Non s'è dormito tutta la notte, causa i preparativi."
"Venite fuori all'aperto."
"Si, qui ho finito."
Sairy soffiò sulla candela e le due donne uscirono.

Da "Furore", di John Steinbeck, Ed. Bompiani I Grandi Tascabili, 2000, pp. 155-157.

domenica 20 febbraio 2011

TUTTI I RACCONTI - Roald Dahl

[...]
In effetti, la quantità di carne che la bambina aveva messo su dal giorno prima era straordinaria. Il piccolo petto incavato con tutte le costole in fuori era ora tondo e gonfio come un barilotto, e anche la pancia era bella gonfia. Stranamente, però, braccia e gambe non sembravano cresciute proporzionalmente. Sempre corte e ossute, sembravano degli stecchetti che sporgevano da una palla di grasso.

"Guarda!" disse Albert. "Sta mettendo anche un po' di peluria sul pancino, per tenersi calda!" Allungò una mano e stava per sfiorare con la punta di un dito la peluria leggerissima, morbida, d'un giallo-marrone, che era improvvisamente comparsa sul pancino della bambina.
"Non toccarla!" gridò la madre. Si girò verso di lui, mandando lampi dagli occhi; all'improvviso, col collo allungato verso di lui, sembrava un piccolo uccello pugnace nell'atto di saltargli addosso e beccargli gli occhi, cavarglieli.

"Aspetta un momento", fece lui, ritraendosi.
"Tu devi essere pazzo!"
"Un momento, Mabel, un momento, per piacere, perché se ancora pensi che quella roba è pericolosa... E' questo che stai pensando, vero? E va bene. Allora sta' a sentire. Ora io ti dimostrerò, una volta per tutte, Mabel, che la pappa reale è assolutamente innocua per gli esseri umani, anche in dosi enormi. Per esempio: secondo te perché l'anno scorso la produzione del miele s'è ridotta alla metà del solito? Avanti, di', perché?"

Due o tre passi indietro lo avevano allontanato da lei; ora si sentiva più tranquillo.
"La ragione per cui l'estate scorsa abbiamo avuto solo la metà della produzione del miele", stava dicendo intanto, abbassando la voce, "è solo questa: ho destinato cento delle mie arnie alla produzione della pappa reale."
"Cosa hai fatto?"
"Ah!" sibilò lui. "Lo sapevo che saresti rimasta di stucco. E l'ho fatto proprio sotto il tuo naso." Gli occhietti non la mollavano e una parvenza di sorriso gli stava increspando gli angoli della bocca.
"Non indovinerai mai il perché l'ho fatto", disse. "Ho avuto paura di parlartene perché pensavo che potesse... be'... più o meno imbarazzarti."

Fece una breve pausa. Teneva le dita delle mani incrociate all'altezza del petto e strofinava un palmo contro l'altro, levando un lievissimo stropiccio.
"Ricordi quello che ti ho letto nella rivista? Quell'articolo sui topi? Vediamo, come diceva? 'Still e Burdett scoprirono che un topo maschio incapace fino allora di procreare...'"
Esitò, il sorriso stava allargandosi, mettendo in mostra i denti.

"Ci sei, Mabel? Hai afferrato?"
Lei taceva ancora, sempre immobile, lì di fronte a lui.

"La prima volta che ho letto quella frase, Mabel, ho fatto un salto nella poltrona e mi sono detto: Se la cosa ha funzionato con un topo schifoso, mi sono detto, non c'è motivo al mondo per cui non debba funzionare con Albert Taylor."
Fece un'altra pausa, sporgendo il capo in avanti e volgendo l'orecchio in direzione della moglie, aspettando che dicesse qualcosa.
Ma lei tacque.

"E un'altra cosa, Mabel. Mi fece subito sentire molto bene, una vera e propria meraviglia, Mabel, credimi. Tanto diverso da com'ero prima che ho continuato a prenderne anche dopo che tu mi desti la bella notizia. Secchi interi ne ho presi, secchi e secchi devo averne buttato giù in questi ultimi dodici mesi."

Gli occhi spalancati e spaventati della moglie si muovevano ora lentamente sul viso e sulla gola del marito. Non si vedeva un quadratino di pelle nuda, neanche ai lati, sotto le orecchie. Tutta la gola, fino alla parte che scompariva nel colletto della camicia, era completamente coperta di quei corti peli giallo-marrone morbidi come seta, anche dietro sul collo.

"E guarda", continuò a dire lui, lanciando un'occhiata affettuosa alla figlia, "che su una bambina piccola funzionerà molto meglio che su di un uomo adulto come me. Del resto, basta guardarla, non trovi?"

Lentamente, gli occhi della donna s'abbassarono e si fermarono sulla bambina. Giaceva nuda sulla tavola, grassa e bianca, in stato quasi comatoso, come una gigantesca larva di ape che s'avvicini alla fine del suo periodo larvale ed è pronta a spiccare il volo nel mondo, completa di mandibole e ali.

"Perché non la copri, Mabel? Non vorrai far prendere un raffreddore alla nostra reginetta, vero?"

Da "Tutti i racconti", di Roald Dahl, Ed. Longanesi, 2009, pp. 116-118.

venerdì 18 febbraio 2011

AMERICAN GODS - Neil Gaiman

[...]
"Voi sapete chi sono" disse. "Lo sapete tutti. Qualcuno di voi non ha alcuna ragione di amarmi ma, con o senza amore, mi conoscete lo stesso."
Tra la gente seduta sulle panche corse un brusio, un piccolo trambusto.
"Sono qui da prima di voi. Come voi ho creduto che fosse possibile cavarsela con quel che c'era. Non sufficiente per essere felici, comunque abbastanza per tirare avanti."
"Può darsi che questo ora non sia più possibile. C'è in arrivo una tempesta e non è una tempesta scatenata da noi."
Si fermò. Fece un passo avanti e incrociò le braccia sul petto.
"Venendo in America la gente ci ha portato con sé. Hanno portato me, Loki e Thor, Anansi e il Dio-Leone, leprecauni, coboldi e banshee, Kubera e Frau Holle e Astaroth, e hanno portato voi. Siamo arrivati fin qui viaggiando nelle loro menti, e abbiamo messo radici. Abbiamo viaggiato con i coloni, attraversato gli oceani, verso nuove terre.
"Questa terra è sconfinata. Ben presto la nostra gente ci ha abbandonato, ricordandosi di noi soltanto come creature del paese d'origine, creature che credevano di non aver portato nel nuovo mondo. I nostri fedeli sono morti, o hanno smesso di credere in noi, e siamo stati lasciati soli, smarriti, spaventati e spodestati, a cavarcela con quel poco di fede o venerazione che riuscivamo a trovare. E a sopravvivere come meglio potevamo.
"E così abbiamo fatto, siamo sopravvissuti tenendoci ai margini, senza dare nell'occhio.
"Ammettiamolo, esercitiamo una ben scarsa influenza. Li deprediamo, li derubiamo e sopravviviamo; ci spogliamo, ci prostituiamo e beviamo troppo; lavoriamo alle pompe di benzina e rubiamo e truffiamo e viviamo nelle crepe ai margini della società.
Vecchi dèi, in questa nuova terra senza dèi."

Wednesday fece una pausa per guardare i suoi ascoltatori a uno a uno con la gravità di un uomo di stato. Loro lo fissavano impassibili, i volti impenetrabili come maschere. Wednesday si schiarì la gola e sputò con violenza nel fuoco. Le fiamme si ravvivarono con fragore illuminando l'interno della dimora.
"Adesso, come avete avuto modo di scoprire da soli, in America stanno nascendo nuovi dèi che crescono sopra nodi di fede: gli dèi delle carte di credito e delle autostrade, di Internet e del telefono, della radio e dell'ospedale e della televisione, dèi fatti di plastica, di suonerie e di neon. Dèi pieni di orgoglio, creature grasse e sciocche, tronfie perché si sentono nuove e importanti.
"Sono consapevoli della nostra esistenza, ci temono e ci odiano" continuò Odino. "Vi ingannate, se credete che non sia così. Ci distruggeranno, se glielo permetteremo. E' tempo per noi di unire le forze. E' tempo di agire."

La donna con il sari rosso avanzò verso i bagliori del fuoco. Sulla fronte aveva un piccolo gioiello blu scuro. Disse: "Ci hai fatti venire qui per sentire questi discorsi senza senso?". Poi sbuffò.
Uno sbuffo che era insieme divertito e irritato.
Wednesday la guardò con cipiglio. "Ti ho chiesto di venire fin qui, è vero. Ma questi discorsi un senso ce l'hanno, Mama-ji. Anche un bambino se ne accorgerebbe."
"Sarei una bambina, allora?" Gli agitò un dito contro. "Io ero già vecchia, a Kalighat, prima che tu fossi concepito, vecchio sciocco. Sarei una bambina, eh? D'accordo, lo sono, perché nei tuoi folli discorsi non c'è niente da capire."

Ancora un momento di doppia visione: Shadow vedeva la vecchia signora, il volto scuro raggrinzito dalle rughe e dalla disapprovazione, ma dietro di lei vedeva anche qualcosa di enorme, una donna nuda e nera come una giacca di pelle nuova, con le labbra e la lingue rosse come il sangue arterioso. Intorno al collo portava una collana fatta di teschi, e nelle sue innumerevoli mani teneva coltelli, e spade, e teste mozzate.

"Non ti ho chiamata bambina, Mama-ji" disse Wednesday in tono conciliante. "Ma sembra evidente..."
"L'unica cosa evidente" ribattè la vecchia indicando con un dito ( e dietro di lei, o attraverso, o sopra, un dito scuro con l'artiglio acuminato echeggiava il movimento) "è la tua brama di gloria. In questo paese abbiamo vissuto a lungo in pace. Alcuni di noi se la passano meglio di altri, è vero. Io me la cavo bene. In India c'è una mia incarnazione che se la passa molto meglio, ma così va il mondo. Non sono invidiosa. Ho visto le novità nascere e morire." Lasciò cadere il braccio lungo il fianco. Shadow vide che gli altri la guardavano, con espressioni diverse - rispettose, divertite, imbarazzate - negli occhi. "Qui adoravano la ferrovia, meno di un battito di ciglia fa. E adesso gli dèi di ferro sono finiti nel dimenticatoio come i cercatori di smeraldi..."
"Arriva al dunque, Mama-ji" disse Wednesday. [...]

[...]
Il ristorante era a dieci minuti di macchina. Wednesday aveva detto a tutti che quella sera sarebbero stati suoi ospiti e aveva organizzato il trasporto al ristorante per quelli che erano venuti senza mezzi.
Shadow si chiedeva come avessero fatto ad arrivare fin lì, innanzitutto, senza un mezzo proprio, e come se ne sarebbero andati, ma preferì non dire niente. Gli sembrava la cosa più furba da fare.
La sua macchina si riempì di ospiti; sul sedile accanto al suo aveva preso posto la donna con il sari rosso. Dietro c'erano due uomini, il giovane tarchiato con l'aria strana di cui Shadow non aveva afferrato il nome, che comunque suonava come Elvis, e un altro uomo vestito di scuro che Shadow non riusciva a ricordare.
Era stato in piedi accanto a lui mentre apriva la portiera, gliel'aveva aperta e chiusa, eppure di lui non ricordava niente. Si girò a guardarlo, osservandon con attenzione la faccia, i capelli, i vestiti, facendo di tutto per essere sicuro di riconoscerlo, se l'avesse incontrato di nuovo, e quando tornò a guardare davanti a sé per mettere in moto immediatamente scoprì che l'uomo era scivolato fuori dai suoi ricordi. Gli era rimasta un'impressione di ricchezza, nient'altro.
Sono stanco, pensò. Gettò un'occhiata alla sua destra, alla donna indiana. Notò la collana d'argento con i piccoli teschi che le adornava il collo, il braccialetto portafortuna con le teste e le mani mozzate che tintinnavano come campanelli, quando si muoveva, il gioiello blu in mezzo alla fronte. Profumava di spezie, cardamomo e noce moscata, e di fiori. Aveva i capelli sale e pepe e quando si accorse che lui la stava guardando gli sorrise.
"Chiamami Mama-ji" disse.
"Io sono Shadow, Mama-ji".
"E che cosa ne pensi dei piani del tuo datore di lavoro, signor Shadow?"
Rallentò per lasciare che un grosso furgone nero li superasse spruzzandoli di fango. "Io non faccio domande, lui non dà spiegazioni."
"Se vuoi la mia opinione, penso che stai cercando di fare una grande uscita di scena. Vuole saltare per aria in un alone di gloria. Ecco che cosa vuole. E noi siamo abbastanza vecchi, o abbastanza stupidi, da dirgli di sì, almeno qualcuno di noi."
"Il mio lavoro non è fare domande, Mama-ji" rispose Shadow. L'abitacolo della macchina risuonò della risata argentina della donna.
L'uomo sul sedile posteriore - non il giovane dall'aria strana, l'altro - disse qualcosa, e Shadow gli rispose, ma un momento dopo per niente al mondo avrebbe potuto ricordare che cosa si erano detti. [...]

Da "American Gods", di Neil Gaiman, Ed. Piccola Biblioteca Oscar Mondadori, 2006, pp. 129-131; 133-134.

lunedì 14 febbraio 2011

MIGUILIM - João Guimarães Rosa

[...]
"Adesso m'insegni ad armare le trappole..." chiedeva Dito, quando l'inverno cessò di colpo, i pappagalletti verdi già passavano, con vocìo trillato, era così bello prima.
A Dito non aveva il coraggio di dir di no. Ma la trappola non veniva come doveva, anche Dito ci si provò, osservava serio, solo lo zio Terêz ne era capace. Per tutto, lo zio Terêz stava lontano.
Tornasse lo
zio Terêz, Miguilim conversava. "Il sanhaço pigola come un flauto... Sembra che impari a suonare..." "Cos'è il flauto, zio Terêz?" Flauto era come uno zufolio, di strumento, somigliava in meglio al pigolio del sanhaço grande, a quel ioioioim... Zio Terêz non doveva farne uno per lui, di bambù, di cannuccia di papaia? Ma, poi, di certo se n'era dimenticato, mai che nessuno avesse tempo, quasi nessuno, avevano tutti da lavorare.

Tomezinho e Dito correvano, nel patio, ognuno con un pezzo di pertica, erano cavallini cui era stato dato perfino il nome. "Giocare, Miguilim!" Giocare a nascondino. Anche la Chica e Drelina giocavano, i cani abbaiavano in modo diverso. Gig
ão quasi che sapeva giocare pure lui. Miguilim correva, sentiva un dolore da una parte. Si arrestava, non aveva più il coraggio di respirare. Non voleva staccarsi dal posto - il dolore dove andar via. Così da un momento all'altro, appena un principio di dolore, che veniva, si posava - allora in un istante, non poteva anche desistere dal posare in lui, e andare via? Se ne andava. Ma non voleva dire niente, lui lo sapeva, e si scorò.

Già era etico. Dunque, doveva morire, proprio, la medicina del sor Deogratias non serviva a niente.
"Dito, che giorno è oggi?"
Dunque, doveva morire; bisognava che pensasse come se già fosse una persona grande? Alzò le manine, tappandosi gli occhi. Il guaio era che uno bisognava che cercasse di pensare soltanto alle cose che doveva fare, ma era la testa che pensava per proprio conto - quel che gli si presentava era ogni sorta di brutte idee su quel che poteva succedere! Meglio le storie. Quella del padre del sor Soande vivo, storia dell'uomo farmacista, Soande. Quello, un bel giorno, pensò di essere arrivato al punto giusto, capace di navigare diritto al cielo, privilegio speciale; e allora dispose di tutto quello che aveva, si accomiatò da tutti, e salì su un albero, di mattina presto, esclamò:
"Bello, bello, che vo in Cielo..." e si lasciò andare, per volare; capitombolò di lassù, si fece molto male in terra. "Ben gli sta!" commentava Nonna Izidra. "Chi pensa di meritare il Cielo, finisce sempre a casa del diavolo!..." Nonna Izindra criticava tutti.

Da "Miguilim", di João Guimarães Rosa, Ed. Universale Economica Feltrinelli, 1999, pp. 49-50

domenica 13 febbraio 2011

IL GIORNO DOPO DOMANI - Allan Folsom

[...]
Kanarack aveva alzato gli occhi dall'acqua che gli turbinava attorno. Respirava meglio; braccia e gambe stavano ritrovando la sensibilità. La siringa era ancora in mano a Osborn. Kanarack pensò che forse gli restava una possibilità. Poi Osborn girò di scatto la testa, come se qualcosa lo avesse colto di sorpresa. Kanarck seguì la direzione del suo sguardo. Un uomo alto, con impermeabile e cappello, stava scendendo verso di loro. Aveva in mano qualcosa. Alzò il braccio.

Un secondo più tardi, si udì un suono come se una decina di picchi si fossero messi all'opera contemporaneamente su un albero. L'acqua prese a ribollire. Osborn sentì qualcosa penetrargli nella coscia, e cadde. L'acqua ribolliva ancora. Osborn tentò di rialzarsi e vide l'uomo col cappello entrare nel fiume. La cosa che aveva in mano continuava a emettere le sue raffiche secche.

Osborn si immerse e cominciò a nuotare. Rumori smorzati, come di proiettili, gli giungevano da sopra. Sott'acqua, la poca luce del pomeriggio svanì del tutto. Non sapeva quale direzione stesse seguendo. Qualcosa lo colpì, si attaccò al suo corpo. Poi la corrente si impossessò di lui. La cosa si staccò, venne trascinata via. I polmoni di Osborn stavano per scoppiare per la mancanza d'aria, ma la forza della corrente lo trascinava giù, verso il fondo del fiume. Di nuovo, la cosa entrò in collisione con lui, e Osborn si rese conto di essere impigliato. Allungò le braccia, cercò di liberarsi.
L'oggetto era massiccio; sembrava un tronco d'albero coperto di muschio, e non voleva staccarsi. I suoi polmoni stavano per implodere. Doveva assolutamente respirare, ignorare la cosa che gli si era attaccata, e fare l'impossibile per emergere in superficie. Scalciò con tutta la sua forza, diede un colpo all'indietro con le braccia e schizzò verso l'alto.

Un attimo dopo, la sua testa emerse in superficie. Boccheggiante, Paul riempì d'aria i polmoni. Si stava muovendo a una velocità notevole. Riusciva appena a intravedere la riva del fiume, alla sua destra. Girando la testa, vide i fari delle automobili che correvano sulla strada alle sue spalle, e capì di essere al centro del fiume, trascinato dalla vorticosa corrente della Senna.

Emergendo in superficie, si era liberato della cosa impigliata al suo corpo; o almeno lo credeva, perché adesso era libero. La corrente aveva ripreso a trascinarlo via quando, all'improvviso, andò di nuovo a sbattere contro la cosa. Si girò, vide un oggetto oscuro che aveva un ciuffo d'erba all'estremità più vicina a lui. Fece per spingerlo via. Una mano emerse in superficie e gli si aggrappò al braccio. Con un urlo d'orrore, Osborn tentò di liberarsi. Ma la stretta della mano era salda. Poi scoprì che ciò che aveva preso per erba non era fatto erba: erano capelli. In distanza, sentì un rombo di tuono. La pioggia si fece torrenziale. Osborn si dimenò, tentò di staccare quelle dita dal proprio braccio. La cosa ruotò su se stessa, restò a galleggiare girata su un fianco. Urlando, lui cercò di allontanarla, ma la cosa non si muoveva. Quando esplose un lampo, Osborn si ritrovò a fissare un occhio sanguinante, mostruosamente trafitto da frammenti di denti. Sull'altro lato del viso non c'era alcun occhio, solo una massa di carne sanguinolenta. Un attimo dopo, la cosa balzò su ed emise un gemito. Poi la mano, poco per volta, si staccò dal braccio di Osborn, e ciò che restava di Henri Kanarack venne trascinato via dalla corrente.

Da "Il giorno dopo domani", di Allan Folsom, Ed.TEA, 2001, pp. 142-143.

GENTE DI DUBLINO - James Joyce

[...]
"Grazie, Maria".
Maria disse poi di aver portato qualcosa di speciale per papà e mamma, qualcosa che avrebbero sicuramente gradito, e si mise a cercare il plumcake. Frugò nella borsa di Downes e poi nelle tasche dell'impermeabile e infine sull'attaccapanni, ma non riuscì a trovarlo da nessuna parte. Poi chiese ai bambini se qualcuno di loro l'avesse mangiato - per sbaglio, naturalmente - ma tutti i bambini risposero di no e assunsero l'aria di non gradire i dolci se poi dovevano essere accusati di averli rubati.
Ognuno propose una propria soluzione del mistero e la signora Donnelly disse che Maria doveva averlo sicuramente dimenticato in tram. Maria, ricordandosi di come si era confusa davanti a quel signore dai baffi grigiastri, arrossì con un misto di vergogna, rabbia e delusione.
Al pensiero di aver sciupato la sua piccola sorpresa e di aver gettato per niente i due scellini e quattro pence, per poco non scoppiò a piangere.
Ma Joe disse che non importava e la fece accomodare accanto al camino. Con lei era molto gentile. Le raccontò di come andavano le cose nel suo ufficio e le ripetè una bella risposta che aveva dato al suo principale.
Maria non capiva perché Joe trovasse tanto da ridere in quella risposta, ma disse che doveva essere difficile andar d'accordo con una persona autoritaria come il suo padrone. Joe disse che a saperlo prendere per il verso giusto non era un tipo cattivo, anzi era una brava persona fintanto che non lo si contrariava. La signora Donnelly si mise a suonare il piano per i bambini e loro ballarono e cantarono. Poi le due figlie del vicino cominciarono a distribuire le noci.
Ma nessuno riuscì a scovare lo schiaccianoci e per poco questo non fece arrabbiare Joe, che cominciò a chiedere in giro come avrebbe fatto Maria a schiacciar le noci senza lo schiaccianoci.
Maria però disse che le noci non le piacevano e che non si dovevano preoccupare per lei.
Allora Joe le chiese se in compenso avrebbe gradito una bottiglia di birra e la signora Donnelly aggiunse che, se lo preferiva, avevano anche del porto in casa. Maria disse allora che non aveva bisogno di niente; ma Joe insistette.

da "Gente di Dublino", di James Joyce, Ed. Universale Economica Feltrinelli I CLASSICI, 1998, pp. 94-95.

domenica 6 febbraio 2011

IL CARTEGGIO ASPERN - Henry James

[...]
Mentre i fiori continuavano ad arrivare non mi aveva mai ringraziato, ma si era discostata dalle sue abitudini fino a mandarmi a chiamare non appena aveva cominciato a temere che potessero non arrivare più. Lo notai; ricordavo quali rapaci propensioni avesse dimostrato quando si trattava di estorcermi denaro, e mi rallegrai nell'intimo della felice idea che avevo avuto nel sospendere il tributo. Ne aveva sentito la mancanza e desiderava fare delle concessioni per recuperarlo. Al primo segno di tali concessioni non potevo non venirle incontro.
"Temo che ultimamente non ne abbiate avuti molti, ma ricominceranno subito - domani, stasera".
"Oh, mandatecene un po' stasera!" esclamò Miss Tita, come si trattasse di un caso di importanza immensa.
"Cos'altro dovreste farne? Non è un gusto virile, trasformare la vostra stanza in una pergola", osservò la vecchia.
"Non trasformo la mia stanza in una pergola, ma amo smodatamente coltivarli, osservarne la vita. Non vi è nulla di non virile in questo: è stato il divertimento di filosofi, di statisti in pensione; credo addirittura di grandi capitani".
"Suppongo sappiate che si possono vendere - quelli che non vi servono - proseguì Miss Bordereau -. Oso dire che non ve li pagherebbero molto; ma sarebbe comunque un affare".
"Oh, affari non ne ho fatti mai, come voi dovreste sapere. E' il mio giardiniere che ne dispone, e io non faccio domande".
"Io invece qualcuna ne farei, ve lo assicuro!" disse Miss Bordereau; ed era la prima volta che la sentivo ridere. Non mi riusciva di abituarmi all'idea che ciò che più eccitava la divina Juliana era questa visione di un profitto pecuniario.
"Venite voi stessa a raccoglierli in giardino; venite tutte le volte che volete; venite ogni giorno. Sono tutti per voi", incalzai, rivolgendomi a Miss Tita e agevolando la via a tale verace asserzione col trattarla come uno scherzo innocente. "Non capisco perché non venga", aggiunsi, ad uso di Miss Bordereau.
"Siete voi che dovete farla venire; dovreste venir su a prenderla - disse la vecchia, con mia stupefazione -. Quella strana cosa che avete costruito nell'angolo, le andrebbe magnificamente per sedercisi".
L'allusione al pergolato era irriverente e confermava l'impressione che già avevo avuto, che vi fosse una scintilla di impertinenza nei discorsi di Miss Bordereau, uno strano spirito beffardo che doveva aver fatto parte della sua avventurosa gioventù e che era sopravvissuto a facoltà e passioni. Cionondimeno chiesi, "Non vi sarebbe possibile venir giù voi stessa? Non vi farebbe bene star seduta all'ombra, con quest'aria così dolce?"
"Oh, signore, quando uscirò di qui non sarò per starmene seduta all'aria aperta, e temo che ciò che mi si muoverà attorno non sarà particolarmente dolce! Sarà un'ombra molto fitta davvero. Ma non è ancora il momento", proseguì Miss Bordereau, maliziosamente, come per rettificare le speranze che questa coraggiosa allusione all'ultimo ricettacolo della sua mortalità potesse avermi indotto a nutrire. "Sono stata seduta qui per molti giorni e di pergole ne ho avute abbastanza ai miei tempi. Ma non ho paura di attendere la mia chiamata".[...]

da "Il carteggio Aspern", di Henry James, Ed. tascabili Marsilio, 1998, pp. 67-68.